Una parrocchia pellegrinante, al riparo di una tenda, le braccia alzate in preghiera

Una parrocchia pellegrinante.

Nel corso della sua storia secolare, la comunità cristiana di Araceli ha più volte mutato il luogo in cui annunciare la Parola e celebrare l’Eucarestia, in cui dare visibile forma al suo vivere insieme. I primi documenti che ci riferiscono di un insediamento cristiano datano ancora all’VIII secolo, ma fino all’inizio del XIII le notizie sono confuse: a San Vito, pressappoco nella sede dell’attuale cimitero acattolico, si stabiliscono dapprima i monaci benedettini, poi il controllo passa ai canonici della Cattedrale e da loro, in pochi anni, agli studenti e ai docenti dell’Università di Vicenza (che ebbe vita breve), infine all’Ordine camaldolese, rinnovata espressione di quello benedettino. È da questo momento che inizia la storia della parrocchia, nell’area di San Vito sull’Astico, perno di un omonimo Borgo (così venivano chiamati i quartieri periferici, oltre la cinta delle mura). All’inizio del XVI secolo una guerra – quella della Lega di Cambrai contro la Repubblica Veneta – determina la distruzione della chiesa di San Vito e un conseguente avvicinamento della sede parrocchiale alle mura scaligere trecentesche: il piccolo precedente oratorio di Santa Lucia fu ingrandito, e nel 1546 si formò così la parrocchia dei Santi Vito e Lucia, nella zona dove attualmente insiste il monastero dei Minori francescani. All’inizio dell’Ottocento un nuovo trasferimento: la soppressione degli ordini religiosi decretata da Napoleone aveva determinato, tra l’altro, la chiusura e la distruzione di gran parte del convento delle Clarisse di Santa Maria in Araceli (il termine è una deformazione di ad cellam, a indicare proprio la presenza di un monastero, così come a Padova esiste l’analoga deformazione di Arcella). Il grande tempio barocco progettato da Guarino Guarini e costruito da Carlo Borella scampò fortunatamente alla distruzione del convento e divenne, sino al 1967, la sede della comunità parrocchiale. La scelta dell’area tra via Muttoni e Borgo Scroffa ha motivazioni molto diverse dalle precedenti: non un conflitto, non l’esigenza di officiare un eminente segno architettonico, quanto piuttosto la decisione di collocare la chiesa parrocchiale nel centro del quartiere che era venuto formandosi dopo la fine della seconda guerra mondiale, in una zona in precedenza quasi totalmente agricola, ma dove ormai vivono almeno i 3/5 dei membri della comunità. L’idea che spinse all’erezione della chiesa di Cristo Re fu dunque quella che bisognava andare incontro alla gente là dov’essa viveva.
Al riparo di una tenda.

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La costruzione di una chiesa è sensibilmente differente da quella di un altro edificio comunque aperto al pubblico. Non bisogna soltanto tener conto di bisogni funzionali, occorre anche esprimere, in qualche misura, l’idea stessa della comunità che la vivrà. Tale esigenza fu avvertita con molta serietà dall’arch. Gino Ferrari, cui si deve il progetto della chiesa parrocchiale di Cristo Re, che si trovò di fronte a notevoli difficoltà: un’area molto irregolare, quasi triangolare, un quartiere in tumultuosa espansione, privo di un aspetto definito e consolidato, la presenza dell’antico palazzo Velo-Scroffa: “L’edificio della Chiesa – scrisse Ferrari – doveva inserirsi in tale paesaggio per contrasto: edificio del nostro tempo, realizzato con tecniche moderne, rispondente ai dettami della nuova liturgia, doveva costituire un nuovo centro di interesse, anche architettonico. […] La forma planimetrica suggerì la struttura in alzato. Al vertice del settore circolare tre grandi piloni avrebbero sostenuto la copertura che, come una immensa tenda, sarebbe calata dalla cuspide a coprire lo spazio interno; sul perimetro verso le due strade l’altezza del vano sarebbe stata minima in modo che la costruzione non incombesse sullo spazio ridotto con una facciata intesa nel senso tradizionale: e il centro di interesse all’interno dello spazio, denunciato chiaramente all’esterno, sarebbe stato quello sottostante al vertice della costruzione, la zona liturgica, l’altare principale. La grande vela della copertura in rame, scendendo dal vertice, ha il lato frontale aperto e vetrato per inondare di luce l’altare, e convogliare su questo l’interesse dello spettatore: mentre in una maggiore penombra rimane la zona riservata ai fedeli…”.
Le braccia alzate in preghiera.

Ferrari parla in seguito di una sorta di anfiteatro, sia pure senza gradinate, realizzato con la preoccupazione di coinvolgere tutta l’assemblea nei momenti della celebrazione, e di un’idea che lo aveva guidato nel disegnare l’aguzzo profilo della struttura: “a proposito dello spazio interno di questa Chiesa, spazio cui la luce scendendo dall’alto filtrata attraverso le vetrate istoriate, dà una particolare vibrazione, vorrei fare un paragone, che mi è venuto spesso alla mente. Forse molti ricorderanno quel bellissimo disegno di Dürer che rappresenta due mani giunte nella preghiera. Direi che questo edificio lo ricorda: e il suo spazio è simile a quello racchiuso fra due gigantesche mani giunte, delle quali le nervature della copertura rappresentano le dita”. Non è facile dire a quale disegno del maestro rinascimentale tedesco Ferrari si riferisca (forse all’incisione con Il figliol prodigo, del 1496?), ma l’idea sottesa è assai più chiara: coniugare il tema della tenda, primo tempio biblico, dopo l’Esodo e fino alla costruzione di quello di Salomone, che dovrebbe ricordarci come la nostra vita sia un cammino di liberazione, con quello della preghiera: la chiesa si fa luogo di intercessione tra una comunità che si fa carico del luogo in cui vive e i problemi del mondo. Non è insomma un luogo in cui riposarsi, se non per proseguire il pellegrinaggio cui siamo chiamati. Questo fu il senso delle parole di don Domenico Mattiello, il 27 ottobre del 1968, quando la chiesa di Cristo Re in Araceli fu ufficialmente consacrata: “La nostra è stata una parrocchia pellegrinante. […] Il pellegrinaggio fatto da un luogo all’altro nel corso dei secoli, bene esprime l’immagine di tutta la Chiesa come società dei credenti in cammino verso Dio. Anche questa nuova chiesa, che pure sembra essere l’approdo definitivo, nella sua struttura si rifà a una tenda, contiene in fondo un richiamo al senso della provvisorietà delle cose e alla inarrestabilità del nostro cammino”. Abbiamo di recente sperimentato la provvisorietà delle cose, anche della resistenza al tempo della nostra chiesa parrocchiale.
La meta.
Adesso il nostro cammino riprende. La meta la conosciamo bene, è Cristo stesso, re della storia, accanto a noi in ogni momento, lieto e drammatico, della nostra vita: dalla nascita al battesimo, dalla prima celebrazione dell’eucarestia al matrimonio, ai funerali delle persone che ci sono care, la chiesa ci comunica il senso della reale presenza di Gesù al nostro fianco. Anche con i segni che la arredano: nell’ambone scorgiamo Gesù che attraversa la terra di Israele annunciando la Parola, nell’altare il Gesù sommo sacerdote di cui parla Paolo, che intercede per noi presso il Padre, dopo aver donato il suo corpo e il suo sangue simboleggiati nel pane e nel vino eucaristici. Anche noi dobbiamo prepararci a seguirlo nella via del sacerdozio, cui tutti siamo chiamati sin dal giorno del battesimo. Il sacerdozio cristiano è spendere la vita per i fratelli, facendo memoria del sacrificio di Cristo. Sono solo alcuni dei segni profondi che ogni chiesa custodisce.

La chiesa parrocchiale, luogo della vocazione quotidiana della comunità

Gli Atti degli Apostoli ci narrano la vita della prima comunità cristiana e insistono sul bisogno, per i discepoli di Cristo e per i loro seguaci, di trascorrere del tempo insieme. Un tempo scandito dalla preghiera e dall’eucarestia, dalla condivisione di ciò che si è e di ciò che si ha, dalla gioia serena di una vicinanza fraterna. È insomma la comunità cristiana che dà senso a un luogo dove potersi ritrovare, a quei luoghi cui è stato dato, da subito, il nome di “chiese” proprio a partire dal termine “ecclesia”, che significa l’assemblea di quei credenti che sono stati chiamati a condividere un progetto. È la Chiesa, l’assemblea di chi crede in Gesù morto e risorto, che dà senso alla chiesa. Non dobbiamo trascurare questo significato profondo nel momento in cui possiamo finalmente riaprire la chiesa parrocchiale di Cristo Re, dopo i lunghi lavori che sono stati necessari per renderla fruibile, sicura, più bella. Lavori ingenti, resi possibili dalla generosità (di cui avremo per altro ancora bisogno) di tanti fedeli, che ringrazio proprio in nome della comunità che può tornare a riunirsi nel centro del nostro quartiere, in un momento liturgico tanto importante, alla vigilia della Settimana Santa. Nel suo cammino per annunciare la venuta del Regno di Dio, Gesù ha spesso insistito sul fatto che i luoghi di culto, dove incontrare la fedeltà di un Dio che ci ama e vuole la nostra salvezza, possono essere ovunque, ovunque viva un credente: è quanto annuncia alla Samaritana, è quanto dirà a chi lo condanna, avvisando che in tre giorni potrà ricostruire il Tempio, è quanto ripete tante volte ai discepoli che invia sulla strada del Regno. Sono loro, siamo noi, le “pietre viventi” del nuovo Tempio di Dio, è la vita di ciascuno di noi il luogo in cui possiamo far incontrare a chi ci è vicino la misericordia del Padre. La chiesa non è insomma la casa di Dio: è però il luogo che ci ricorda la nostra vocazione di ogni giorno; è il luogo dove poter esercitare il sacerdozio che accomuna tutti i credenti (“sarete un popolo di sacerdoti”, Es. 19,6): l’annuncio della Parola, la celebrazione dell’Eucarestia, la preghiera di intercessione, l’esercizio della carità. Ciascuno di noi è sacerdote nella sua casa, nella sua vita, con le persone che incontra. Ma abbiamo anche bisogno di ritrovarci insieme per scoprire che questa vocazione è di tutti, e che di tutti i suoi membri una comunità ha bisogno per essere viva. Con la Pasqua Gesù, risorgendo, ha ricostruito in tre giorni il Tempio. Per i cristiani la chiesa è anche il simbolo del corpo del Salvatore e così ci ricorda che ciascuno di noi è Tempio dello Spirito. Noi crediamo nella promessa di Gesù e attendiamo il suo ritorno. La nostra chiesa parrocchiale è dedicata a lui in quanto Re dell’Universo: un re mite, che dona la propria vita in riscatto per tutti, che ci chiede di camminare con lui verso la vita. È ciò che il celebrante osserva quando il sole colpisce la vetrata che illumina il presbiterio: in Gesù è il senso della storia, un cammino che ci sembra talvolta tortuoso e senza certezze; in questo percorso abbiamo bisogno a volte di riposare, di sostare con lui, per ritornare alle sfide della vita di ogni giorno. La chiesa di Cristo Re è stata pensata come una “tenda” in cui sostare per riacquistare le forze per riprendere il cammino. Viviamo in questo modo la sua riapertura.